Lavoro: outsourcing. Manifattura, alberghiero, welfare. L’appalto di manodopera è sempre più diffuso tra precarizzazione, ricatto, smantellamento dei diritti dei lavoratori. In fabbrica assume i connotati del caporalato
“Ti prendono e ti sfruttano, una volta che non servi più ti mandano via” dice Chaouni Abdelali, detto Ali. I racconti dei lavoratori di Maschio N.S. sembrano appartenere a un romanzo dell’Ottocento, invece tutto accade ai giorni nostri a Grezzago, in provincia di Milano. Casa madre di altri stabilimenti in Europa e in Brasile, l’azienda si occupa di lavorazione di materiali plastici (nella fattispecie di cisterne per la produzione industriale) oltre a produrre macchinari per la stessa stampa delle materie plastiche. È ben nota a Slai Cobas di Bergamo che da tempo dà supporto a buona parte degli operai che ci lavorano. All’apparenza una fabbrica di piccole dimensioni – nello stabilimento italiano non si arriva nemmeno a 40 lavoratori – in realtà tutt’altro: “Hanno clienti importanti come per esempio Mapei… non è una fabbrichetta da poco, producono per grossi gruppi industriali”.
Sergio Caprini, rappresentante sindacale Slai Cobas, e alcuni operai, ci hanno raccontato come si lavorava in Maschio: “Dopo due anni non puoi più correre dietro a tre macchine che stampano la plastica. La pressa, una specie di robot, produce e butta fuori e tu devi correre, se non reggi i ritmi di lavoro sei fuori” spiega Caprini. Ritmi che sono massacranti, ricorda Ouardi Mohammed, vittima di un incidente a una gamba mentre correva per stare dietro a “tre macchine, trenta metri tra una macchina e l’altra, più una in mezzo”. Prima che Slai Cobas riuscisse a strappare a Maschio il rispetto delle pause “non c’era neanche il tempo di mangiare, lavoravamo anche dieci, undici ore tutti i giorni senza fermarci”. Le macchine lavoravano di continuo ed erano impostate “sempre al massimo della velocità” dice Ali, “Antonella ogni tanto passava a controllare se la velocità era stata cambiata”.
Antonella Brambilla, direttrice responsabile di produzione di Maschio, “ha completa autonomia decisionale nella gestione del sito produttivo di Grezzago e nell’organizzazione dei dipendenti, sia di Maschio N.S. sia di Business Service”, si legge nel ricorso per appalto illecito presentato al Tribunale di Milano (ci arriveremo). Era lei, tra le altre cose, a decidere i turni. Bisognava essere sempre disponibili: “Ti arrivava la chiamata alle 4 dopo che avevi smesso di lavorare alle 2, «Torna, c’è un’emergenza», e non potevi dire di no altrimenti ti mandavano via” continua Ali, “a volte di notte il titolare (Pietro Maschio, n.d.a.) usciva, cominciava a sgridare ed è capitato anche che ci mandasse via, oppure ti presentavi alle 6 del mattino per iniziare a lavorare e trovavi al cancello Maschio che ti diceva di tornartene indietro”. Gli operai, oltre a seguire due o tre macchine insieme, dovevano anche occuparsi di controllarne il funzionamento corretto: “Dovevo controllare l’olio e in caso servisse cambiarlo, oppure se la fotocellula non funzionava dovevo sistemarla, così come i tubi dell’acqua che a volte bloccavano la macchina” dice Ali, “non solo lavoravamo in produzione ma facevamo anche da meccanici, il meccanico non veniva a fare questi lavori. [Pietro] Maschio non voleva, perché il meccanico doveva occuparsi di costruire altre macchine”. Erano all’ordine del giorno gli abusi verbali e in alcuni casi anche fisici com’è successo ad Ahmed Zahir: ha lavorato per Maschio dal 2013 al 2017, quando durante un turno di notte Pietro Maschio lo ha colpito con un calcio ai testicoli mandandolo all’ospedale. “[Pietro] Maschio era sempre arrabbiato con tutti gli operai”, racconta.
Eppure non si tratta di un rapporto di lavoro in nero: gli operai sono assunti con un regolare contratto. Il problema è da chi…
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