Intervista di Erika Bussetti
Lavoro: outsourcing. Manifattura, alberghiero, welfare. L’appalto di manodopera è sempre più diffuso tra precarizzazione, ricatto, smantellamento dei diritti dei lavoratori. Nel welfare taglia i servizi essenziali peggiorandone la qualità per il cittadino e svalutando il lavoro degli operatori sociali. Il caso Milano
Matteo Maserati, delegato Sial Cobas e rete IOS (Intersindacale Operatori Sociali), è educatore presso un’azienda di servizi di assistenza socio-sanitaria a Milano: lavora con persone disabili. Siamo nell’ambito del welfare pubblico, ma gestito attraverso aziende consortili miste pubblico/privato, che a loro volta possono appaltare a cooperative private. La prima ondata di Covid, a primavera, ha stravolto tutto: sospensione del servizio, ripresa a distanza – in modalità video… – problematiche varie; poi si è tornati a una ‘nuova normalità’. Dopodiché ci risiamo con la seconda ondata. Su questo stravolgimento pesa non poco la dinamica di esternalizzazione, tramite la quale un servizio pubblico passa attraverso realtà private. È la logica ormai applicata da anni nei Comuni: taglio i costi, diminuisco il personale, riduco il welfare, entra il Terzo Settore privato (e dunque anche la logica del profitto). Si chiama neoliberismo. E quando su questa realtà si aggiunge qualcosa come il Covid, le criticità esplodono.
Prima di ragionare sull’esternalizzazione, partiamo dal servizio: come lavoravi nella normalità pre-Covid?
C’è una struttura diurna e gli ospiti vengono in struttura. Ogni operatore segue tre o quattro persone disabili, quindi si lavora in piccoli gruppi che si alternano facendo cose diverse.
Cosa è accaduto con l’arrivo del Covid, a marzo?
Appena è iniziato il lockdown non si capiva chi doveva decidere e che cosa: l’ATS non decideva, il Comune non decideva, nessuno decideva. Il servizio di fatto è stato sospeso perché le famiglie hanno smesso di mandare i figli al Centro e i lavoratori hanno smesso di andare a lavorare, entrambi per ragioni di sicurezza propria e reciproca. A questo punto, nella terza settimana di marzo, se ricordo bene, l’ente ha dovuto comunicare che non c’erano lavoratori e non c’erano utenti. Solo allora è arrivata la decisione delle ATS locali e dei Comuni di dichiarare chiuso il servizio. Dopo poco, qualche giorno, si è attivato il lavoro a distanza.
Cosa significa fare didattica a distanza con persone disabili? È possibile farlo?
Innanzitutto le persone con disabilità più grave sono rimaste tagliate fuori. Perché abbiamo cercato di rimodulare il nostro intervento, con chi poteva utilizzare strumenti telematici – che ovviamente erano a carico nostro, degli educatori, dei lavoratori: il proprio computer, a casa propria, utilizzando la propria rete… – ma per le situazioni più problematiche si è reso impossibile, e quindi in questi casi il lockdown ha significato una sospensione totale dell’assistenza. Nei servizi che si occupano di disabilità grave o di fasce di età molto basse, come gli asili nido, la didattica a distanza è veramente paradossale, perché si riduce a contatti telefonici, video chiamate o attività da remoto, con magari anche la presenza dei familiari. Si va dalla narrazione di storie alla costruzione di semplici lavoretti con materiali casalinghi, per cui in realtà si tratta di attività più di ‘intrattenimento’ e di mantenimento di un contatto, di una relazione, piuttosto che di vera didattica o di un reale percorso che va a lavorare sugli obiettivi specifici della persona. Sono anche stati ridotti i tempi: per il servizio ai disabili, due terzi delle ore di lavoro sono state mantenute con questa didattica a distanza e per un terzo ci hanno messo in cassa integrazione; per gli asili nido hanno fatto metà e metà.
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