Recensione del film Martin Eden, Pietro Marcello
In una scena di C’era una volta in America (1984) – ultimo capitolo della trilogia del tempo di Sergio Leone – all’epoca in cui i personaggi principali sono ancora bambini o poco più, Noodles (Scott Tiler) entra nel bagno del caseggiato popolare in cui abita con la famiglia e afferra un libro appeso per lo spago alla finestra. Il titolo che si legge sulla copertina è Martin Eden, l’autore Jack London. Una scelta consapevole da parte degli sceneggiatori, poiché anche Noodles, come Martin all’inizio del romanzo, vorrebbe conquistare una ragazza di diversa e-strazione sociale, più ricca e istruita, Deborah (interpretata da Jennifer Connelly da adolescente ed Elizabeth McGovern da adulta), la quale diventerà per lui emblema di una meta impossibile da raggiungere alla stessa maniera di Daisy per Gatsby nel capolavoro di Fitzgerald.
Una vicenda che ha parecchi echi nella vita di Jack London. Anche quello che sarebbe diventato uno dei più importanti scrittori americani, infatti, da giovane fu innamorato di una ragazza appartenente all’alta borghesia, Mabel Applegarth, con la quale instaurò una relazione travagliata per via della loro differenza di classe. In questo senso – e non solo – il personaggio di Martin Eden rappresenta una sorta di suo alter-ego narrativo. Eppure la storia raccontata da Jack London è anche e soprattutto una storia universale che ricalca la struttura della tragedia greca nella parabola prima ascendente e poi discendente dell’eroe marchiato dalla hybris – un topos letterario di cui la figura di Icaro rappresenta l’archetipo per eccellenza – oltre naturalmente a rappresentare, almeno fino a un certo punto, uno splendido esempio di Bildungsroman. Ma essa può essere letta anche alla stregua di un ‘mito fondante’ del Novecento – già intrisa di tutte le ideologie e conflittualità che avrebbero caratterizzato il corso di questo secolo.
Proprio tale aspetto deve aver colpito Pietro Marcello nel momento in cui ha deciso di realizzare la versione cinematografica di Martin Eden – Coppa Volpi al Festival di Venezia nel 2019 – tanto da convincerlo ad ambientare il film in un’epoca indefinita, mettendo in scena una quantità di elementi anacronistici tra loro – da situazioni e scenari tipici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento ad altri che rimandano agli anni Settanta, fino allo scoppio delle due guerre mondiali a cui si fa riferimento in chiusura. Tempo che cambia per non cambiare mai, secondo una logica gattopardesca, tanto da acquisire il valore di un eterno presente da cui pare impossibile fuggire. Ma procediamo per ordine…
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