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Home Cultura Musica

Barak Obama. A Promised Land. With a Playlist

Augusto Bruni by Augusto Bruni
15 Dicembre 2020
in Musica, Ultimo Numero
0
Barak Obama. A Promised Land. With a Playlist
  • (Paginauno n. 70, dicembre 2020 – gennaio 2021)

Il Grande Spettacolo Americano è terminato. Si spengono i riflettori sulla pista e come in The Truman Show qualcuno cerca il telecomando per cambiare canale. Le beghe procedurali post-voto non interessano praticamente a nessuno: anche i trumpiani più sfegatati, penso, prima o poi cercheranno il telecomando perché quel post-voto non li intrattiene più. È vero che c’è una (per fortuna piccola) minoranza che se l’è legata al dito e spero che non coltivino il rancore sino a farlo sfociare in qualche attentato. D’altronde giù a Sud c’è ancora qualcuno che gira con la bandiera sudista della Guerra Civile, accumula armi e provviste in casa e chiama yankee con disprezzo quelli che girano con un’auto con la targa del Nord. Che volete farci, gli statunitensi proprio non riescono a vivere senza un nemico e senza pretendere di insegnare al prossimo qual è il giusto modo di vivere. Sono anche disponibili ad ammazzare il tuo Presidente legittimamente eletto, se questi ha idee un po’ troppo di sinistra. E giù a Sud il razzismo è vivo e vegeto, nonostante tutto. E i tentativi di ostacolare a tutti i costi il voto dei neri sono costanti e mai sopiti. Le cassette della posta nel tuo quartiere nero spariscono, e devi farti tre isolati nel quartiere bianco, a rischio, per imbucare la tua scheda elettorale. Se non sei nato e cresciuto nel quartiere, ma vieni da un’altra parte della città, o addirittura da un’altra città di un altro Stato, ti sfiancano a furia di richieste di certificati: e ovviamente gliela dai su perché too much is too much.

La leggendaria Rosa Parks, che rifiutò di muoversi dal suo sedile d’autobus per cedere il posto a un bianco e fece detonare la protesta per i diritti civili, non era la bovera dona negra sdanga delle barzellette un po’ razziste. Manco per niente: era un’attivista ben consapevole e addestrata alle tecniche di resistenza passiva che il movimento le aveva insegnato: determinazione, pazienza inamovibile, dignità. Oggigiorno gli attivisti di Black Lives Matter hanno la stessa lucida consapevolezza, e sono stati loro a insegnare agli altri cosa significhi lottare efficacemente.

Bene: ho fatto una rapida incursione sulla CNN tanto per vedere come trattavano l’argomento e ho scoperto un paio di analisti del voto con strumenti e chiarezza da vendere. L’unico problema è che andavano a 250 all’ora nel parlare e dopo un po’ avevo il mal di testa. Sono approdato su internet e mi sono messo a seguire i dibattiti avviati da amici e parenti, ricchi – contemporaneamente – di battutacce e di contributi geniali. Uno di questi ultimi è venuto da Latif Nasser, un curioso investigatore delle politiche comunicative, scrittore e regista teatrale, magnifico mezzosangue (metà indiano e metà tanzaniano) nato in Canada e approdato ad Harvard e successivamente a Netflix, dove ha prodotto una entusiasmante serie intitolata Connections. The Hidden Science of Everything (consiglio vivamente).

In questa trasmissione il nostro si diverte un mondo a cercare e trovare delle connessioni a catena tra fatti apparentemente lontanissimi; il bello è che ci riesce, e che i contributi causali tra un fatto e l’altro risultano tutt’altro che peregrini. Sicché Latif ci suggerisce che nei casi da lui esaminati dovremmo cercare il rimedio vero nella causa prima dell’evento finale che sta davanti a noi, magari lontanissima in termini geografici: la sabbia del deserto sahariano, addensata in nuvole, riesce a generare ossigeno, mitigare un uragano in mezzo all’Atlantico e infine fertilizzare la foresta amazzonica. Il giorno prima delle elezioni Latif ha ripreso l’osservazione fatta otto anni prima da un utente di Instagram chiamato @rkrulwich e poi quella del geologo Steve Dutch che, come me, guardava i risultati elettorali delle presidenziali 2016 esposti su di una carta degli States divisa in migliaia di quadratini (le contee). Giù nel Sud, largamente conservatore, c’erano sostanziose fette di territorio colorate di rosso, il colore del partito Repubblicano. Ma, se si andava in dettaglio, si vedeva che c’era in orizzontale come una pennellata frettolosa di blu (il colore dei Democratici) che si estendeva per un gran numero di chilometri: dal centro-sud degli USA quasi fino alla costa atlantica. Per l’occhio del geologo quella linea assomigliava pericolosamente al profilo della costa sud degli USA durante il Cretaceo, tra 145 e 65 milioni di anni fa. BAM! Cosa succedeva allora? E cosa succede adesso? Andiamo con ordine e riassumendo al massimo…

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