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Clandestinità: le
sette vite di un reato inutile di Giovanna Baer |
Il doppio binario del
reato penale e dell’illecito amministrativo, una farsa inutile
e dannosa |
È il 15 gennaio 2016. Il Giornale titola: “Gli italiani vivono nel terrore: «Il reato di clandestinità resti»”, e prosegue: “Un sondaggio Ixè, realizzato in esclusiva per Agorà, svela tutte le paure di un popolo in balia dell’immigrazione clandestina e del fondamentalismo islamico. Il 67% degli italiani teme attentati legati al terrorismo di matrice islamica in Italia nel 2016. Solo una settimana fa la percentuale era al 65%. A fronte di questi timori il 47% degli intervistati da Ixè si dice contrario all’abolizione del reato di immigrazione clandestina, ipotesi avanzata in questi giorni dal premier Matteo Renzi” (1). In realtà abolire il reato di clandestinità è qualcosa di più di un’ipotesi, come invece cerca di far credere il quotidiano della famiglia Berlusconi. La Legge 28 aprile 2014 n. 67 ha infatti affidato al governo il compito di depenalizzare, cioè di trasformare in illecito amministrativo, entro 18 mesi tutti i reati per i quali sia prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, fra cui quello di clandestinità (2). A luglio dello scorso anno il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva spiegato in Commissione Affari costituzionali al Senato perché quella che da più parti è da sempre stata considerata una misura solo “propagandistica e ideologica”, nonché “inefficace, con una capacità limitata, se non nulla, di deterrenza”, doveva essere definitivamente abrogata: “L’abrogazione del reato di immigrazione clandestina non solo comporterà un risparmio di risorse, giudiziarie e amministrative, ma produrrà anche effetti positivi per l’efficacia delle indagini in materia di traffico di migranti e favoreggiamento all’immigrazione clandestina” (3). La sua cancellazione era prevista nel decreto legislativo sulle depenalizzazioni, approvato in via preliminare dall’esecutivo lo scorso novembre, ma non è successo nulla, e nel frattempo i termini di legge sono stati abbondantemente superati. Nessuno, o quasi, ne parlava più fino a che il capo della polizia Alessandro Pansa ha pensato bene di dichiarare, il 10 gennaio 2016, che il reato di clandestinità “intasa l’attività delle procure” e che “probabilmente è preferibile che venga riformato, con un meccanismo che renda più agevole la gestione degli immigrati quando transitano per i nostri confini in maniera illegale” (4). Apriti cielo. Al leader della Lega Nord, Matteo Salvini, non è parso vero poter polemizzare di nuovo sull’argomento e ha chiesto, in una sede ufficiale come Facebook, le dimissioni del superpoliziotto: “Il capo della polizia chiede di depenalizzare la clandestinità. Ma come mai la clandestinità è un reato efficace in mezza Europa e in mezzo mondo, e solo in Italia non si riesce ad applicarlo? Il capo della Polizia dovrebbe difendere i suoi uomini e gli italiani, invece di leccare le scarpe di Renzi: si dimetta!” (5). Anche Grillo e Casaleggio si schierano contro la cancellazione del reato (forse con scarso tempismo, visto che nel frattempo due senatori del M5S avevano presentato in Commissione Giustizia un emendamento a favore della cancellazione). Vista l’aria che tira, anche il propugnatore della riforma, il guardasigilli Orlando, si lancia in una mezza giravolta, e dichiara che, per evitare strumentalizzazioni, “col ministero degli Interni si sta ragionando su un intervento complessivo che riguardi i rimpatri e i tempi per il riconoscimento dello status di rifugiato: l’abolizione del reato può stare dentro quel pacchetto” (6). Il citato ministro Alfano, tuttavia, sembra smarcarsi, e pur condividendo le “ragionevoli obiezioni” fatte dal procuratore nazionale antimafia, e quelle “altrettanto ragionevoli” del ministro Andrea Orlando, ritiene sia meglio procrastinare: “Non è questo il momento opportuno per andare a modificare quel reato. La gente non capirebbe” (7). Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi lo segue a ruota: “Penso che in questa specifica fase storica e politica per poter depenalizzare i reati di immigrazione clandestina, occorra preparare prima l’opinione pubblica, non perché abbiamo paura in termini di consensi, ma perché c’è un problema di percezione della sicurezza. […] Forse si può arrivare a eliminare quel reato se si prepara bene il terreno, oggi non credo che sia giusto farlo” (8). Il ministro non dichiara quali inenarrabili rischi, oltre alla perdita del consenso, farebbe correre la percezione di una minore sicurezza. Ma il vero problema, come spesso accade in Italia, non è quello di cui si discute.
Benché l’illecito abbia una natura
penale, esso non consente misure quali l’arresto o il fermo
di polizia, perché, secondo il nostro ordinamento, esse sono
ammesse solo per i reati che comportano una pena detentiva: di conseguenza
lo straniero che entra o soggiorna illegalmente in Italia viene denunciato
‘a piede libero’, e nell’intervallo di tempo che
intercorre fra Di fatto, quandanche il clandestino dovesse essere condannato a pagare l’ammenda, rintracciarlo sarebbe ormai praticamente impossibile (e irragionevolmente costoso). Ma, anche ammesso di riuscire a contattarlo, lo Stato non avrebbe alcuna garanzia di recuperare la pena pecuniaria irrogata, dal momento che lo straniero irregolare, proprio perché non possiede un permesso di soggiorno, non può accedere ad alcuna risorsa economica: non può avere uno stipendio perché non può essere assunto legalmente, non può possedere un conto corrente a cui lo Stato possa accedere, e nemmeno essere titolare di un bene immobile o di un bene mobile registrato su cui la giustizia possa mettere le mani. In altri termini, “l’impossidenza economica del condannato e, comunque, l’impossibilità oggettiva di avere un patrimonio aggregabile dallo Stato creditore, evidenziano l’assoluta inutilità di questo illecito” (11). Anzi, dato che perseguire un reato ha un costo, il
risultato del provvedimento è stato quello di peggiorare la
situazione finanziaria dell’apparato giudiziario senza produrre
alcun effetto contenitivo sul fenomeno. Le conseguenze della sua introduzione
erano fin da subito largamente prevedibili, e i numeri non hanno tardato
a dimostrarlo: dopo 18 mesi, su 172 fascicoli aperti, solo 55 erano
stati definiti, e avevano portato ad appena 12 condanne, 18 patteggiamenti
e quattro assoluzioni. “E non può essere diversamente
– aveva commentato Patrizio Gonnella dell’Associazione
Antigone – visto che stiamo parlando di una legge-manifesto,
assolutamente inapplicabile” (12).
All’epoca il sistema espulsivo italiano, disegnato nel 2002 dalla Bossi-Fini, prevedeva che tutte le espulsioni fossero eseguite immediatamente dalla polizia con l’accompagnamento coercitivo alla frontiera, e il governo Berlusconi non era particolarmente entusiasta all’idea di doversi adeguare velocemente alla normativa sovranazionale. Dal momento che la direttiva consentiva di derogare all’obbligo di concedere un termine per la partenza volontaria nei casi in cui l’espulsione fosse stata disposta come sanzione penale (o in conseguenza della stessa), l’allora ministro degli Interni Roberto Maroni e il suo collega guardasigilli Angelino Alfano (proprio lui) decisero di ‘inventare’ il reato di ingresso e soggiorno illegale, “sanzionandolo con una sanzione pecuniaria, ma prevedendo che il giudice (nella specie quello di pace) potesse sostituire l’ammenda con l’espulsione, a titolo di sanzione sostitutiva della stessa pena pecuniaria. In tal modo l’espulsione sarebbe stata conseguente a una sanzione penale e, conseguentemente, si sarebbe potuta aggirare la direttiva rimpatri non applicandola, nel pieno rispetto formale della direttiva stessa” (14).
Quindi oggi, al momento dell’accertamento dello status di clandestinità, partono due procedimenti paralleli, entrambi volti all’allontanamento dall’Italia: quello penale e quello amministrativo, in una sorta di gara a chi arriva prima. “Se nelle more dello svolgimento del processo penale l’Amministrazione esegue l’espulsione coattivamente, il giudice del procedimento penale emette una sentenza con cui dichiara che l’azione penale è diventata improcedibile, perché lo Stato non ha più alcun interesse a condannare al pagamento di un’ammenda – a sua volta convertibile in espulsione – uno straniero che già è stato allontanato dall’Italia. Se, viceversa, all’atto della celebrazione
del processo per il reato di clandestinità non si ha notizia
dell’avvenuta espulsione dell’imputato, si prosegue e
– in caso di condanna – il giudice irroga la pena pecuniaria,
che può essere sostituita dall’espulsione disposta dello
stesso giudice. Così lo straniero, che nel frattempo è
uccel di bosco (perché, come precedentemente chiarito, non
può essere messo in carcere per un reato punito con la sola
pena pecuniaria) fa collezione di espulsioni: quella amministrativa
del prefetto e quella del giudice di pace. […] Ma neppure l’eventuale
espulsione del giudice a titolo di sostituzione dell’ammenda
può esser facilmente disposta ed eseguita: la legge, infatti,
prevede che il giudice possa effettuare la sostituzione solo se non
esistono ostacoli alla sua immediata esecuzione, cioè se lo
straniero è identificato, se ha il passaporto, e se c’è
un vettore disponibile a riportarlo da dove è venuto. Peccato
però che la sussistenza di queste stesse circostanze avrebbe
già determinato l’esecuzione dell’espulsione in
via amministrativa, con conseguente sentenza d’improcedibilità
in sede penale. Se, invece, si celebra il processo penale, ciò
vuol dire che l’espulsione amministrativa non è stata
eseguita, proprio per la sussistenza di quegli stessi impedimenti
che
Anche la Chiesa italiana si è inserita nel dibattito in corso chiedendo l’abolizione del reato di clandestinità. Il concetto è stato ribadito da monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes: “Una condizione di vita non può essere un reato” (17). Gli ha fatto eco monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, che rispondendo a Giovanni Floris il 13 gennaio scorso alla trasmissione DiMartedì ha dichiarato: “Il reato di clandestinità è un’abnormità, perché punisce una condizione, non un comportamento”. Sul fenomeno dell’immigrazione in Italia, ha continuato, c’è “differenza tra percezione e realtà, e la differenza tra percezione e realtà non aiuta ad affrontare seriamente un problema che non è più un’emergenza”. E di fatto nel 2015 sono sbarcati in Italia 153 mila profughi; oggi nelle strutture italiane ne sono accolti 103.792, quindi circa 50 mila hanno continuato il viaggio verso il nord Europa. La Lombardia ha il più alto numero di persone accolte nei centri di prima accoglienza (12.499), e le richieste d’asilo sono aumentate del 40% rispetto al 2014 (18). Ma è addirittura il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, a schierarsi a favore dell’abrogazione del reato: “Da due anni il mio ufficio si occupa molto intensamente del coordinamento delle indagini sul traffico di migranti via mare gestito dalle organizzazioni criminali. In questa attività, e in più riunioni con i procuratori distrettuali, c’è stato segnalato il problema del trattamento giuridico processuale dei migranti proprio in relazione al reato di immigrazione clandestina […] La questione riguardava in particolare le regole da seguire per raccogliere le dichiarazioni dei migranti, che possono essere fondamentali per ricostruire le reti dei trafficanti, a seconda se i migranti debbano essere esaminati come indagati di immigrazione clandestina, quindi con le necessarie garanzie difensive, oppure se devono essere considerate mere persone informate sui fatti, se non addirittura delle vittime di tratta […]. "È evidente che questo profilo giuridico è estremamente delicato, perché il differente trattamento può determinare conseguenze per l’uso delle dichiarazioni rese dai migranti, che sono fondamentali per ricostruire le reti del traffico […]. Non v’è dubbio che è molto più utile per le indagini e per accertare la responsabilità di soggetti colpevoli di traffico organizzato di migranti poter esaminare i clandestini solo come persone informate sui fatti, con riflessi positivi sulla speditezza, efficacia e legittimità delle indagini contro i trafficanti. […] Se viene sentito come imputato [il clandestino] può tacere trincerandosi dietro la facoltà di non rispondere o peggio depistare le indagini. Mentre, se è sentito come persona informata sui fatti, è obbligato a parlare e a dire la verità. Inoltre, evitando di sentire il migrante come imputato lo Stato risparmia, perché non ci sono i costi del difensore d’ufficio nelle fasi delle audizioni e fino alla conclusione del processo” (19).
Il problema, dunque, saremmo noi: perché siamo disinformati, in preda al panico da straniero e dunque, come si ripete da più parti, non capiremmo. Ma come sottolinea Savio, “chi ha fatto credere all’opinione pubblica che quel reato costituisse un utile strumento di contrasto all’immigrazione irregolare, pur sapendo benissimo che altro era lo scopo? Chi ha scelto di accalappiare il consenso popolare alimentando le paure dell’invasione e suggerendo rimedi del tutto inutili e controproducenti? Chi ha propagato per anni con forza l’idea che fenomeni sociali epocali potessero essere governati seriamente con gli strumenti della repressione penale? Nessuno risponde politicamente, prigionieri come siamo di fragili equilibri, per cui mentre il mondo cade a pezzi e i singoli Stati dell’Unione si chiudono a riccio, qui da noi ci si arrovella se sia politicamente opportuno mantenere in vigore un reato inutile”.
1) S. Rame, Gli italiani vivono
nel terrore: «Il reato di clandestinità resti»,
Il Giornale, 15 gennaio 2016
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