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Polemos |
L’emigrazione
degli italiani nel Novecento, speranza e dramma di migliaia di famiglie,
ricordata e rivisitata attraverso lo sguardo di artisti italiani,
in un viaggio fra Storia, musica, letteratura e fumetti |
Qualche tempo fa, in concomitanza
con la promulgazione nel nostro Paese delle ultime leggi razziali
che equiparano tout court la clandestinità alla delinquenza,
trasformandola in un reato da punire con la galera e l‘espulsione,
e con il dilagare di un pericoloso sentimento di xenofobia, ebbe una
certa diffusione nella rete l'estratto di una relazione dell'Ispettorato
per l’immigrazione del Congresso americano, datata ottobre 1912,
sul tema specifico dell‘immigrazione italiana. Sollecitato dalle tante analogie e trovando conferma
del fatto che la difficoltà di accettazione del diverso è
un vizio antico quanto l'uomo e ben radicato a qualsiasi latitudine,
sono andato a fare una ricerca sul sito della Ellis Island Foundation
(1), dove sono annotati gli arrivi degli emigranti provenienti da
tutto il mondo, compresi i nomi delle navi che li hanno portati sul
suolo americano. Ellis Island, come tutti sanno è l'isoletta
al largo di New York, famosa per ospitare la Statua della Libertà
e per essere stata il luogo in cui attraccavano le navi della disperazione
e dove gli emigranti venivano tenuti in quarantena dopo essere stati
scrupolosamente schedati (da qui la ricchezza e la precisione dell'archivio
della Fondazione). Forse potremmo, o meglio, dovremmo vedere la questione con un occhio diverso, visto che i nostri progenitori sono stati costretti a passare attraverso le stesse forche caudine. E a tal proposito mi sembrano quanto mai appropriate le parole che un autentico poeta, Gianmaria Testa, ha scritto e cantato in Ritals, brano tratto dal suo disco Da questa parte del mare (2), un lavoro che, per usare un termine non più in voga, è un concept album interamente dedicato ai migranti di ogni epoca e terra. Eppure lo sapevamo anche noi / l'odore delle stive
/ l'amaro del partire / Sì, perché al pari di un qualsiasi
disperato che lascia la propria terra per raccogliere le briciole
cadute dalla ricca tavola imbandita di un Occidente indecente per
inutili consumi ed eccesso di sprechi, anche gli italiani emigravano
per sfuggire alla povertà, alla disoccupazione, al bisogno,
e questo senza andare troppo lontano nel tempo. Le società opulente usano dunque come cavallo
di battaglia il tema della sicurezza dei cittadini, e lo fanno agitando
lo spauracchio di un'incontrollabile invasione di barbari intenzionati
a scacciarci dalle nostre case, portarci via le nostre donne (evidentemente
viste non come soggetto ma come semplice appendice del maschio guerriero
resistente) e il nostro lavoro, a far scomparire la nostra millenaria
cultura (come se nel frattempo non ci avesse già pensato qualcun
altro a sostituire materia grigia con tette culi e cotillons). Paradosso
nel paradosso, i governi occidentali non rispondono al problema con
interventi tesi all'estensione di una giustizia sociale che sia sempre
più diffusa, che offra una possibilità reale di vita
a qualsiasi cittadino, ma inaspriscono le pene e inventano di sana
pianta reati, come quello di clandestinità, che vanno a cozzare
contro qualsiasi regola giuridica esistente oltre che con il più
semplice buon senso. C'è una riga, una sola riga della lunga canzone
Luna Persa del cantautore genovese Max
Manfredi (4), che ha provocato in me un processo di identificazione
e una rabbia dura, cattiva, come se mi trovassi io stesso nella situazione
del protagonista. Quella riga recita la preoccupazione di un padre
al cospetto di una figlia febbricitante: “No che non c'è
acqua calda. Cristo, hai la fronte che scotta!”. Gian Antonio Stella, noto giornalista del Corriere
della Sera e appassionato studioso del fenomeno dell'emigrazione italiana,
nel recital L’orda (5), a canti della tradizione
magistralmente interpretati da Gualtiero Bertelli e dalla sua Compagnia
delle acque, alterna suoi interventi, impreziositi da splendidi filmati
d’epoca, riguardo ai drammi, alla disperazione e alla violenza
dell’abbandono delle proprie case, subiti nel tempo dai nostri
connazionali in cerca di migliori condizioni di vita in terre lontane.
Cosa sanno i nostri giovani (oggi in gran parte
razzisti per ignoranza o per induzione mediatica) del naufragio del
vapore Sirio del 1906, nel quale morirono 500 nostri connazionali?
O del piroscafo Utopia (un nome un programma, per chi sognava una
nuova vita dall’altra parte dell’oceano), inabissatosi
nel 1891 al largo del porto di Gibilterra, 576 i morti, per lo più
donne e bambini? È bene che si sappia, fin dai banchi di scuola, che quegli uomini, ma forse sarebbe più corretto definirli semplicemente ‘braccia’, erano spesso considerati come mera merce di scambio tra governi, come molto freddamente (e chiaramente) illustra la nota verbale 42/8447/8 dell’accordo firmato a Roma il 15 marzo 1946 tra il nostro ministro degli Affari Esteri e il rappresentante belga: “Per ogni scaglione di 1.000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2.500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1.750.000; tonn. 3.500 mensili, se la produzione sarà compresa tra 1.750.000 e 2.000.000 tonn.; 5.000 mensili, se la produzione sarà superiore a 2.000.000 tonn.” (6). Ma tornando al clima di intolleranza nei confronti
dei nostri connazionali, negli Stati Uniti c’era qualcosa di
peggio che essere italiani, e cioè essere italiani e al contempo
socialisti, o addirittura anarchici. Il connubio di questi elementi
era una sorta di paranoica fissazione per le autorità e scatenava
una furia brutale nelle forze dell’ordine che vedevano in ciò
una seria minaccia per la realizzazione della mitica e mitizzata way
of life americana. In questa fase storica si consuma la tragedia
di un operaio pugliese e di un pescivendolo piemontese, entrambi anarchici,
accusati di rapina e omicidio sulla base di testimonianze vaghe e
contraddittorie, quando non addirittura improbabili, comunque influenzate
dalla Corte nell’ambito di quel contesto di odio feroce nei
confronti degli immigrati italiani in generale e dei ‘sovversivi’
in particolare. «Ho da dire che sono innocente» dice
Gian Maria Volonté nei panni di Vanzetti, nella riduzione cinematografica
della famosa arringa difensiva dell’anarchico piemontese. «In
tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato, non ho
mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto.
Primo fra tutti: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
E se c’è una ragione per la quale sono qui è questa,
e nessun’altra. Una frase, una frase signor Katzmann, mi torna
sempre alla mente: “Lei signor Vanzetti, è venuto qui
nel paese di Bengodi per arricchire”. Una frase che mi dà
allegria. Io non ho mai pensato di arricchire. Non è questa
la ragione per cui sto soffrendo e pagando. Sto soffrendo e pagando
per colpe che effettivamente ho commesso. Sto soffrendo e pagando
perché sono anarchico. E me sun anarchic! Perché sono
italiano… e io sono italiano. Ma sono così convinto di
essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte,
e io per due volte potessi rinascere, rivivrei per fare esattamente
le stesse cose che ho fatto. Nicola Sacco… il mio compagno Nicola!
Sì, può darsi che a parlare io vada meglio di lui. Ma
quante volte, quante volte, guardandolo, pensando a lui, a quest’uomo
che voi giudicate ladro e assassino, e che ammazzerete… Quando
le sue ossa signor Thayer non saranno che polvere, e i vostri nomi,
le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto,
il suo nome, il nome di Nicola Sacco, sarà ancora vivo nel
cuore della gente. (Rivolgendosi a Sacco) Noi dobbiamo ringraziarli.
Senza di loro noi saremmo morti come due poveri sfruttati. (Tornando
a rivolgersi alla giuria) Un buon calzolaio, un bravo pescivendolo,
e mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto
in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra
gli uomini. Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati!» In un’intervista il regista del film, Giuliano
Montaldo, racconta che la scena dell’autodifesa conclusiva dovette
essere girata svariate volte in quanto in più di un’occasione,
un figurante che interpretava il ruolo di un poliziotto alle spalle
dell’imputato, fu sorpreso a piangere (cosa ovviamente inverosimile
e fuori luogo nel contesto) tanto era il pathos che Gian Maria Volonté
riusciva a creare. Ma ci sono altri modi di guardare al dramma della
partenza, del distacco, del ‘salto nel buio’ che l’emigrazione
implica. È possibile scrivere un romanzo senza vergare una
sola parola, una Ma indipendentemente dalla tematica trattata e dalla
notevole capacità narrativa dell’autore, L’Approdo
è anche un piccolo miracolo editoriale, di quelli che si verificano
molto sporadicamente, perché ogni singola illustrazione, dalla
più piccola, delle dimensioni di un francobollo, a quella grande
quanto due intere pagine, è una vera e propria opera d’arte;
un libro del genere dovrebbe avere una diffusione di gran lunga maggiore,
in funzione propedeutica, soprattutto in un Paese come il nostro,
caratterizzato da una memoria sempre più corta e da una spropositata
e ingiustificata alta considerazione di sé. Sono convinto che
non esista un popolo migliore di un altro – è una banale
generalizzazione, questa – nonostante alcuni pretendano di essere
stati predestinati a una superiorità derivante nientemeno che
da un mandato divino; noi italiani, però, dopo aver perso da
tempo il diritto di fregiarci dell’appellativo di “popolo
di santi, poeti e navigatori“, in seguito ai fatti di Rosarno,
ai numerosi episodi che farebbero morire di vergogna anche il più
acceso adepto del Ku Klux Klan (vedi l’operazione White Christmas
del comune bresciano di Coccaglio) e alle leggi razziste promulgate
in nome di ‘irrinunciabili’ radici cristiane difese a
spada tratta dai pagani adoratori del dio Po, non possiamo più
pretendere di essere ancora identificati con quella sedicente locuzione,
spacciata in giro per il mondo come carattere di un’intera nazione,
che ipocritamente recita: Italiani, brava gente.
(1) http://www.ellisisland.org
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