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aprile - maggio 2018
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Restituzione
prospettica |
Il cinema, gli anni Settanta
e l’arte della rimozione di Walter G. Pozzi |
La menzogna artistica
che cementa la menzogna di Stato nelle narrazioni ‘di rinuncia’
tipiche del cinema italiano sugli 'anni di piombo' |
Romanzo di una strage
è l’ennesimo atto di resa dell’arte di fronte alle
versioni ufficiali della storia. Sarebbe meglio che non si girassero
più film sugli anni Settanta. Alla fin fine, la menzogna
di Stato è sempre preferibile alla menzogna artistica. Questa forma di continuum narrativo diviene visibile con l’osservazione dell’attualità politica nello scenario di crisi economica in cui versa il Paese. Non appena si accende una timida scintilla di protesta da parte della società civile, che si tratti delle manifestazioni studentesche contro la riforma Gelmini, o del lancio di uova marce da parte degli operai, o dei presidi dei No Tav, ecco riapparire tra le mani dei giornalisti-pompieri e dei politici, il vecchio e logoro lenzuolo del fantasma del terrorismo, a dimostrazione che il paradigma storico, pazientemente costruito in trent’anni di mezze verità e di omissioni, funziona ancora. E funziona sempre attraverso il richiamo all’emergenza terrorismo, come un rapido ammiccamento a mo’ di accenno a una nuova stagione di violenza e alla repressione che necessariamente dovrà seguire, questa volta nella sua forma preventiva (secondo il vivido insegnamento impartito con il massacro del 2001 tra le mura della Diaz). Perché, come ricorda il paradigma vincente degli anni di piombo, la protesta dal basso prima o poi sfocia nelle revolverate. Di questo paradigma, la bomba di Piazza Fontana e la strategia della tensione hanno sempre rappresentato una pericolosa crepa storica, essendo, al contrario, dimostrazione di come l’attacco politico parta sempre dall’alto, dalle classi dirigenti; di come questo avvenga in momenti di crisi economica, spesso attraverso riforme del mercato del lavoro che impoveriscono i lavoratori; e di come altre volte, in momenti di tensione sociale, a supporto di riforme impopolari, le suddette classi dirigenti mettano in campo le famigerate forze ‘occulte’: mafia, servizi segreti, massoneria (P2, all’epoca) ed estremismo di destra. Se, da un lato, la celestiale sentenza con la quale il giudice D’Ambrosio attribuisce la responsabilità della morte dell’anarchico Pinelli a un malore attivo, la dubbia condanna di Sofri, Bompressi, Mario e Pietrostefani per l’omicidio del commissario Calabresi, la mancanza di condanne per i responsabili della strage di Brescia e di molte altre bombe esplose prima e dopo quella della Banca Nazionale dell’Agricoltura, hanno messo al riparo la politica dall’imbarazzante dovere di fare i conti con la propria storia, dall’altro, non sono riuscite a sanare la crepa, lasciando comunque uno strano sapore nelle bocche di coloro che ancora oggi interpretano il rapporto della politica con lo scontento della società civile, facendo un’analogia con quanto accaduto negli anni Settanta. Questa dinamica di rimozione costruita su paradigmi
monolitici, anche se inaccettabile, fa parte del gioco. “I morti
sono complici della pacificazione,” scriveva Merleau-Ponty
nel 1960, “solo vivendo essi potrebbero ricreare di nuovo la
mancanza e il bisogno della loro presenza che vanno svanendo. Gli
storici conservatori citano come ovvia l’innocenza di Dreyfus
– e rimangono conservatori come prima. Dreyfus non è
vendicato, neppure riabilitato; il fatto che la sua innocenza sia
diventata un luogo comune, non lo ripaga del torto subito, poiché
essa non è iscritta nella storia nel senso in cui gli venne
negata e in cui fu rivendicata da suoi difensori. Un discorso valido in particolar modo per l’Italia nel caso della costruzione di verità istituzionali. Come si diceva, è nell’ordine delle cose – i vincitori che scrivono la storia, ecc. Più strano che questa dinamica valga anche per il cinema e, purtroppo, anche per la letteratura, creando delle narrazioni che possono essere definite ‘di rinuncia’. Dall’arte, grazie al linguaggio dell’immaginazione, con la capacità che le è propria di ribaltare le versioni storiche ufficiali e di proporre un’immagine meno statica degli eventi storici, ci si aspetterebbero altri esiti. Una contrapposizione che avrebbe il merito di abbattere quel confine tra cronaca della verità (vista come proseguimento della strategia della tensione) e scrittura di finzione (ovvero: una letteratura della tensione), creato artificialmente dallo stesso linguaggio istituzionale per disconoscere l’arte come strumento di conoscenza. Il racconto sugli anni Settanta ha delle costanti
che restano immutabili nel tempo, anche quando viene costruito con
le migliori intenzioni: scontri di piazza, rivolte studentesche, vite
desolate che sfociano nella droga o nella lotta armata (sempre ‘rossa’),
che alla fine non fanno altro che cementare nell’immaginario
degli italiani, grazie a storie anche molto suggestive e piene di
azione, quell’idea di violenza unilaterale. Al contrario, le
cifre mostrano uno scenario diverso: Gli esempi cinematografici non mancano: La prima linea, lo fa in maniera molto diretta. I film come Il grande sogno e Mio fratello è figlio unico, entrambi ambientati alla fine degli anni Sessanta, mostrano, invece, attraverso storie di gioventù traviata dalla politica, il percorso ‘naturale’ che dalla manifestazione di piazza conduce alla P38, tanto caro al paradigma di regime. In entrambi i casi, uno dei protagonisti compie la scelta della clandestinità, nel secondo con un piccolo valore aggiunto in conclusione al paradigma: i neri picchiano e i rossi sparano. In entrambi i film, non c’è accenno alle bombe con le quali lo Stato ha dichiarato guerra ai movimenti extraparlamentari, capaci di portare in piazza una moltitudine di persone. Una falla logica nell’impianto storico, utile ad attribuire all’ideologia di sinistra l’intera responsabilità della lotta armata. Ma la madre di tutte le omissioni e della superficialità
tipica del cinema di rinuncia è il film uscito nelle sale
nel 2003, di Marco Bellocchio. Dal processo, al contrario, Bellocchio si tiene rigorosamente
alla larga. Romanzo di una strage è l’ultimo
prodotto di quest’arte della rinuncia; la dimostrazione dell’esattezza
delle parole di Merleau-Ponty. Di questo scontro non c’è presenza:
giusto qualche manganellata sulle teste di alcuni manifestanti all’inizio
del film, poi più nulla. Al regista interessava solo affrontare
la questione dell’inchiesta sui responsabili della strage, che
necessariamente lo avrebbe costretto ad affrontare il mistero spinoso
della morte di Pinelli. Scelta furba, perché grazie alle polemiche
che, come da copione, sono seguite, il film ha goduto di una grande
pubblicità. È impossibile, d’altronde, accontentare
chi ha interesse a perpetuare la menzogna e insieme chi cerca la verità. Durante questo vagabondaggio, gli viene rinfacciata
la politica di avvicinamento al partito comunista. E qui egli consegna
allo spettatore una giustificazione perfettamente in linea con il
suo pensiero ufficiale: il Pci rappresenta una parte troppo consistente
del Paese per non dialogarci. Ma, pronunciata così, d’improvviso, avrebbe costretto gli autori della sceneggiatura a tornare indietro di un paio d’anni per spiegarla. E, una volta compiuto questo salto, occorre mostrare le condizioni del lavoro in fabbrica, i pesanti ritmi di produzione, i licenziamenti di massa, che avevano condotto gli operai a una protesta radicale, a esautorare i sindacati per aderire alle nuove forme di lotta proposte da movimenti più aggressivi come Potere operaio, Avanguardia operaia e Lotta continua. Con la conseguenza di allargare in breve tempo la protesta a tutte le grandi fabbriche – Pirelli, Fiat, Porto Marghera, Montedison, Iri, Eni – e di trasformarla in una spinta rivoluzionaria capace di ottenere parecchie conquiste sindacali. Come sa chiunque scriva narrazioni, anche il più
piccolo cambiamento apportato in una storia già costruita,
crea un effetto a catena che richiede continue modifiche e nuove giustificazioni
nel rispetto della coerenza, che spesso finiscono per snaturare l’intero
impianto. Ecco perché, dopo aver mostrato lo sfruttamento degli
operai, gli autori sono costretti a inserire il personaggio dell’industriale.
È questa figura di antagonista (o di protagonista, a seconda
del punto di vista adottato dagli sceneggiatori) che, messo alle strette
dagli operai e dalle esitazioni della politica di fronte alla ‘necessità’
di rispondere alle proteste operaie con una repressione di tipo cileno,
decide di finanziare (insieme a banchieri, agrari e altri padroni)
i movimenti di estrema destra e l’Msi di Almirante, nella speranza
di un golpe alla greca. Contemporaneamente si mettono in moto alcune
parti dell’apparato statale e di alcuni ambienti della Dc. Iniziano
così gli attentati, predisposti da manine in guanti bianchi,
che hanno il preciso obiettivo di addossare la responsabilità
alla sinistra e creare il clima adatto a un colpo di Stato. Il film si chiude qui.
(1) Cfr. La
notte del giornalismo, Giovanna Cracco, Paginauno n. 18/2010
Leggi anche: Il romanzo mai scritto
sugli anni Settanta, Walter G. Pozzi Perché
nasce la lotta armata in Italia di Massimo Battisaldo
e Paolo Margini Cesare
Battisti: la funzione di un simbolo, Walter G. Pozzi La sovversione
del '77: l'Autonomia operaia, Paolo Pozzi L’omicidio di Valerio Verbano e la Roma di quegli anni di Guido Salvini e Claudio Del Bello Strategia
della tensione, una tecnica di governo per i momenti di crisi,
Fabio Damen
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